Il mio intervento in Aula alla Camera sull'Italicum
Non siamo qui a discutere dei rapporti di forza all’interno del Partito democratico né delle convulsioni che agitano chi non riesce più a coagulare intorno a sé il voto del centrodestra e dei moderati italiani. Siamo qui per approvare o bocciare una legge elettorale che sottragga il nostro paese da un limbo istituzionale che non fa che aumentare le incertezze e la disaffezione dei cittadini per la politica.
Questa legge elettorale ha almeno tre grandi pregi: il primo è che la sera delle elezioni, dopo il primo turno o dopo il ballottaggio, si sa chi ha vinto e chi avrà il compito dell’opposizione. Il secondo è la rappresentatività del sistema perché chi vince ha una maggioranza significativa di seggi per governare, ma anche chi non ha vinto è rappresentato adeguatamene nella Camera politica. Il terzo è il potere di scelta attribuito ai cittadini: potere di scegliere chi deve governare, potere di scegliere la lista preferita non solo conoscendo il nome del capolista stampato sulla scheda, ma anche esprimendo fino a due preferenze per candidati di sesso diverso. Almeno il 50% degli eletti verrà scelto con la preferenza, l’attuale sistema, così come il primo testo uscito da quest’Aula non ne prevedeva nessuno. Area popolare si è sempre battuta sin dall’inizio a favore delle preferenze.
Porre la questione di fiducia è stata certamente una decisione politica grave ma pienamente legittima di fronte al tentativo di utilizzare il voto segreto per mettere insieme, su qualche emendamento, una maggioranza impropria al fine di snaturare l’impianto della riforma, rimandarla al Senato e farla così arenare. E’ evidente che in questo modo non si voleva migliorare una legge (migliorabile come tutte le leggi) ma c’era da una parte l’interesse a indebolire una leadership e dall’altra a indebolire un equilibrio politico di governo.
Area Popolare ha invano rivolto un appello a non chiedere lo scrutinio segreto (come avvenne nel 1993, quando fu votato il Mattarellum), perché i deputati non votassero da “incappucciati”, ma assumendosi le proprie responsabilità in modo trasparente, perché i cittadini hanno il diritto di conoscere come votano i propri rappresentanti su una materia politicamene così importante. Purtroppo questo non è avvenuto e di conseguenza non è stato possibile evitare la richiesta del voto di fiducia.
Ho sentito fare paragoni assurdi in base a precedenti che nulla c’entrano con quello che dobbiamo decidere oggi, decisione per la quale ci aiuta invece il precedente del 1953 quando il Presidente del Consiglio e leader della Democrazia cristiana Alcide De Gasperi chiese il voto di fiducia sulla riforma elettorale maggioritaria. La motivazione venne fornita da Aldo Moro (non credo tacciabile di simpatie per l’autoritarismo). Moro, riallacciandosi all’interpretazione all’inglese della democrazia parlamentare che fu data nella prima legislatura repubblicana spiegò che il Governo è il comitato direttivo della maggioranza e che ha il diritto-dovere di mettere in gioco la propria esistenza quando vede il rischio politico di snaturamento di un proprio testo. Per gli oppositori di allora – e di oggi – valgono invece gli argomenti usati da Lelio Basso e dagli altri esponenti delle minoranze di destra e di sinistra contro Moro: non ci può essere una chiara demarcazione maggioranza/minoranze e il Governo è solo il comitato esecutivo del Parlamento; anche se si delinea una maggioranza, ciascuna delle componenti parlamentari ha un diritto di veto per cui l’esecutivo può solo recepire passivamente lo snaturamento di una legge. Il suo programma si riduce a un minimo comun denominatore. Una concezione assemblearista della democrazia parlamentare in netto contrasto con quella delle maggiori democrazie europee, che sono democrazie governanti alle quali abbiamo assoluto bisogno di avvicinarci.
La riforma elettorale, e quella del bicameralismo e del titolo V, sono obiettivi imprescindibili dopo tanti tentativi falliti negli ultimi trent’anni e, soprattutto, di fronte alla crisi di sistema che si è manifestata con l’esito delle elezioni del 2013 quando la legislatura non riusciva ad avviarsi, non si riusciva a formare un governo, né a eleggere il Presidente della Repubblica. Qualcuno vuole tornare a quell’immobilismo paralizzante accusando di decisionismo la semplice e necessaria volontà di mettere i cittadini e le istituzioni del nostro paese nella condizione di poter finalmente decidere? Forse questo qualcuno si è dimenticato gli applausi di quest’aula al discorso di insediamento del presidente Napolitano quando ci ricordava la responsabilità di approvare con urgenza le riforme. Quelle parole e quegli applausi non se li sono certamente dimenticati i cittadini, che chiedono una sola cosa: smettetela con i rinvii.
Abbiamo oggi, allora, la possibilità di approvare una riforma elettorale equilibrata rispetto al primo testo, dopo le modifiche apportate dal Senato, frutto di un lungo e approfondito confronto parlamentare e di una mediazione che ha accolto pienamente le proposte di modifica avanzate dalla minoranza del Pd e dalle altre componenti della maggioranza, con un accordo raggiunto anche con Forza Italia che continua ad arrampicarsi sugli specchi spiegando che questa legge è una svolta epocale se il nome del presidente della Repubblica fosse stato Giuliano Amato, un rigurgito fascista se il nome del presidente della Repubblica è Sergio Mattarella.
“Il modello di democrazia che proponiamo è chiaro – ha detto il capogruppo di Forza Italia al Senato – ed è l’obiettivo che aveva in mente Silvio Berlusconi quando ha fondato Forza Italia nel 1994. Noi qui, oggi, quell’obiettivo lo rivendichiamo con forza”. Ora non credo che Forza Italia possa pensare oggi che erano incostituzionali e anticamera del fascismo anche gli obiettivi che aveva in mente Berlusconi nel ’94.
Quanto alla minoranza del Pd, ricordo che non è il Parlamento il luogo del suo continuo e interminabile congresso. Al Pd tutto ricordo che questo è un governo di coalizione nato in una situazione eccezionale e ingovernabile, per cui il cambiamento si fa insieme. Senza Area popolare non si sarebbero raggiunti i risultati che giustamente vengono rivendicati dal presidente del Consiglio (Jobs Act, responsabilità civile dei magistrati, aiuti alla maternità, Irap sul lavoro…). Non c’è un solo partito al governo, non c’è un uomo solo al comando. Anche questa legge elettorale è frutto di una mediazione.
Nel merito, ricordo alla minoranza Pd anche che sono state accolte le sue più importanti richieste di modifica, che l’impianto delle riforme (sia elettorale sia costituzionale) corrisponde alle conclusioni maggiormente condivise della Commissione di esperti nominata dal governo Letta, che per il premio alla lista anziché alla coalizione (l’unica significativa differenza rispetto alla Relazione della Commissione per le riforme) era una richiesta qualificante del referendum Guzzetta sottoscritto da Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Enrico Letta, come pure da Brunetta, Prestigiacomo, Martino, Alfano… e tanti altri esponenti di FI.
Cerco di capire, però, le preoccupazioni di chi dietro ogni decisione vede un rischio di eccesso di potere (ma invito a riflettere anche sul fatto che è proprio l’incapacità di decidere che fa poi applaudire al primo decisionista che passa). Concordo con il fatto che ogni potere deve avere dei contrappesi. Per questo la riforma che, spero, approveremo oggi non è separabile da quella costituzionale in discussione al Senato.
Lì vanno inseriti ulteriori contrappesi. Le proposte di Area Popolare sono tre:
- La disciplina delle autorità indipendenti da sottrarre all’indirizzo politico dell’esecutivo
- L’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sui partiti, con primarie per le cariche monocratiche esecutive e disciplina degli accordi tra i partiti che vogliono realizzare una lista unitaria di coalizione.
- La possibilità per i cittadini di indicare, nelle elezioni dei consigli regionali, i candidati che ritengono più idonei come senatori.
Quella che abbiamo di fronte oggi è la scelta tra la conservazione e il cambiamento, tra l’immobilismo e il riformismo, tra la palude dei politicismi e una politica che torni protagonista della vita del paese. Ed è una scelta che divide trasversalmente tutti gli schieramenti, come si è già visto dal dibattito sulla riforma del lavoro e sul futuro dibattito sulla riforma della scuola.
Rinviare vuol dire non tener conto del fattore forse più decisivo in questa congiuntura di crisi economica, politica e di ideali: il fattore tempo. Non abbiamo più tempo. E non si dica che stiamo mettendo fretta al parlamento, siamo alla terza lettura di questa legge, rinviare ulteriormente vuol dire affossarla.
Per dirla parafrasando Leibniz, non sarà la migliore delle riforme possibili, ma è la riforma possibile adesso e per questo anche quella necessaria.
Non nascondiamoci dietro un dito, non creiamoci ulteriori alibi, non pensiamo che si possa affidare a una legge o alla sua bocciatura, (ma teniamo presente che se oggi vince il no questa legislatura non vedrà approvata nessuna riforma costituzionale) la risoluzione dei nostri problemi di rappresentanza e di presenza nel tessuto vivo di questo paese. Non c’è legge che possa sostituire la politica, le idee, i progetti, la vicinanza con la gente, la sintonia con i loro problemi, la capacità di mettersi insieme. Non c’è legge elettorale che ti assicuri il voto di un cittadino. Approviamola, e chi ha tela da tessere tessa.