Maurizio Lupi

 Famiglia: Questione di metodo. La modalità è importante perché altrimenti si rischia di vanificare le buone intenzioni.
Marzo 28, 2019

Famiglia: Questione di metodo. La modalità è importante perché altrimenti si rischia di vanificare le buone intenzioni.

Questione di metodo

La modalità è importante perché altrimenti si rischia di vanificare le buone intenzioni

 
Ama talmente la famiglia che se ne è fatte quattro”. Il paradosso incombente su tutto questo brandire la famiglia co­me vessillo buttandola in politica, e quindi in polemica, è in questa battutaccia ma­schilista.
Sul Congresso mondiale delle fa­miglie che si terrà a Verona invece faccio mia la battuta del cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano: “Siamo d’ac­cordo sulla sostanza, qualche differenza ci sia nelle modalità”. La modalità, soprattutto quando si parla d’amore (è ben questa la questione della famiglia? 0 no?), è importante, perché il rischio che il modo ancor offenda – come insegna Dante – esiste, e vanificherebbe ogni buona intenzione.
Ho altre battute da fare mie, sono di Pa­pa Francesco: “Nella delicata situazione del mondo odierno, la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna assume un’importanza e una missione essenziali”. Qual è la delicata situazione del mondo odierno secondo Francesco? “Una società avara di generazione, che non ama circondarsi di figli e li considera un peso, è una società depressa”.
A un depresso puoi fornire tutte le legislazioni pro family che vuoi, ed è giusto farlo (non sto qui a elencare i vari bonus e voucher istituiti né le mancanze, a partire dal fattore famiglia in campo fiscale), ma il depresso non userà i tuoi buoni né si sposerà né metterà al mondo figli, semplicemente perché non vuole farlo.
Chi vuole mettere su famiglia lo fa a dispetto di qualsiasi legislazione, di qualsiasi condizione, di qualsiasi egemonia culturale: non lo fa perché ama la famiglia, lo fa perché ama una persona, vuole condividere con lei la vita; e l’amore – si sa – per sua natura non è egoistico, non è chiuso, tant’è che nascono i figli. Non la sto facendo facile, so benissimo che è difficile. Per quanto moderni noi ci si possa ritenere, non siamo in una condizione tanto diversa da quella degli apostoli che di fronte alle parole di Gesù sul matrimonio dissero: “Ma allora non conviene sposarsi!”
Gesù non rispose agli scettici di allora con un corso di pastorale familiare, né “perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi” (Péguy), tagliò corto: fece il cristianesimo.

La domanda dell’uomo d’ogni tempo

Che cosa voglio dire? Che non bisogna scambiare le conseguenze con l’origine, che si cura la causa e non i sintomi, che bisogna cercare l’essenziale e il resto verrà.
Depressa non è la famiglia, depressi sono l’uomo e la donna che la (non la) formano. La questione del rapporto fra l’uomo e la donna – diceva Benedetto XVI – “non può essere separata dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? Cosa è l’uomo?”.
Non è una domanda da cristiani, è la domanda dell’uomo di ogni tempo e sotto tutte le latitudini ed è utile ricordarsi ogni tanto che Gesù – “Che cosa darà l’uomo in cambio di se stesso?” – non parlava ai cristiani (non c’erano ancora) parlava a chi si trovava di fronte, religioso o ateo che fosse.
Il discorso sulla famiglia trova a questo livello – secondo me – la sua collocazione e la sua giustificazione. La famiglia non può essere fine a se stessa, non può avere in sé il proprio scopo, se è così avrà in sé la propria fine. Come dice per questi casi, purtroppo non infrequenti, in modo macabro un mio amico: “La famiglia è la tomba del­l’amore e la moglie (o il marito) la lapide”.
Non ne faccio una questione di fede (la fede mi interessa in quanto l’esperienza che genera è più umana), ne faccio un problema di concezione dell’uomo come domanda di senso e di genesi sociale come aiuto a vivere (e semmai a rispondere) a quella domanda, di una società concepita cioè come l’organicità di un io che si relaziona.
Il tipo di società che abbiamo costruito, invece, non solo concepisce il singolo come solitudine ma, soprattutto, lo lascia solo. Lo stesso succede alle famiglie: sono sole. Difesa orgogliosamente come valore, la famiglia cerca in sé la sua giustificazione e annaspa, poi si affida agli “esperti”, e lì è l’inizio della fine.
Da un gruppo di giovani che sta lavorando a una mostra su Vàclav Havel, il dissidente anticomunista protagonista della Rivoluzione di velluto di Praga e poi presidente della Cecoslovac­chia, mi è arrivata questa sua frase: “L’ individuo si arrende alla propria umanità rinviandola all’ufficio di un esperto”.
Le famiglie, come ogni persona, hanno bisogno di un luogo per vivere, comunità libere che ricordino loro il motivo per cui nascono e per cui ha senso che non finiscano al primo ostacolo. La prima responsabilità di noi cristiani è la costruzione di questo luogo, quella di noi politici è di garantire le condizioni perché tali esperienze possano esprimersi liberamente.
Questa testimonianza renderà nuovamente centrale la famiglia nella società.
Bonum est diffusivum sui.
 
 

Il mio articolo su Il Foglio del 28 marzo 2019

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