Da Ap sì convinto a riforma costituzionale
Oggi voteremo sì con convinzione a una riforma costituzionale che l’Italia attende da più di trent’anni.
I costi che il nostro Paese ha pagato per questo ritardo sono stati altissimi, costi per il Paese vuol dire costi per i cittadini, per chi cerca un lavoro, per chi vuole creare impresa, per chi mette su famiglia, per chi fa dei figli e li vuole istruire adeguatamente. Il mancato ammodernamento del nostro sistema istituzionale, con la ripetitività e la lentezza, l’incapacità di decidere, sino al limite dell’immobilismo, del nostro sistema legislativo ha avuto queste conseguenze per la vita concreta degli italiani, gliel’ha resa più difficile, e più povera. Un nuovo fallimento, dopo i tanti insuccessi a partire dalla Commissione Bozzi del 1983, non ce lo possiamo permettere, pena la sanzione definitiva della nostra inutilità. E gli italiani ce l’hanno detto chiaramente nel febbraio del 2013, sancendo la sconfitta di ogni schieramento politico – perché nessuno aveva la maggioranza in entrambe le Camere – e obbligandoci ad assumerci la responsabilità di un governo di convergenza con due obiettivi: l’uscita del Paese dalla crisi e il mandato esplicito delle riforme costituzionali, al fine di superare la crisi costituzionale in cui eravamo precipitati proprio a causa del bicameralismo paritario e di due Camere elette, addirittura, da due corpi elettorali diversi. Il primo passo della presa di coscienza di quel fallimento e della conseguente assunzione di responsabilità da parte di questa legislatura fu la rielezione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in quest’Aula, tra i nostri applausi – meglio, tra le nostre ovazioni – disse: “imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario… Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”.
A questo dovere noi di Area popolare non ci sottrarremo certo oggi dopo che per adempiere a questo dovere siamo addirittura nati. Oggi trova compimento il gesto politico con cui nel novembre 2013 abbiamo permesso la continuità della legislatura, e trova compimento anche la coerenza con cui abbiamo perseguito, attraverso molte battaglie che hanno contraddistinto il centrodestra sin dal 1994, i contenuti in cui questa riforma si è sostanziata: la fine del nostro “assurdo e ingombrante” bicameralismo paritario che tanto ha nuociuto non solo alla stabilità e all’efficacia dell’azione di governo, ma anche alla autorevolezza e alla centralità della sede della sovranità popolare; lo snellimento e la semplificazione del procedimento legislativo, tempi certi per l’approvazione delle leggi, con il conseguente rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, ma nell’ambito di un rafforzamento complessivo della forma di governo parlamentare e del sistema delle garanzie. E poi la revisione del titolo V che pone rimedio ai gravi limiti della modifica del 2001 e all’imponente contenzioso costituzionale che essa ha causato con grave danno per la certezza del diritto e per l’economia del Paese. E tra i contenuti della riforma non si può sottacere anche la riduzione dei costi della politica derivante dalla riduzione del numero di parlamentari, dai limiti alle spese dei Consigli regionali e dall’abolizione del Cnel.
La coerenza di un parlamentare è la coerenza di fronte a chi l’ha eletto e la coerenza di fronte a un programma elettorale. Nel programma elettorale del 2013, nel programma elettorale del 2008, nel programma elettorale del 2006, in tutti i programmi elettorali, anche quello del 2001, il centrodestra si era qualificato per queste riforme, per questi contenuti di riforma. Questa è la sfida che abbiamo davanti.
Non è superfluo ricordare che l’impianto generale della riforma corrisponde, in sostanza, alle conclusioni espresse a larga maggioranza dalla Commissione di costituzionalisti ed esperti nominata dal governo Letta. Una riforma alla quale hanno contribuito e che ha visto la convergenza anche di molti che oggi osteggiano questa riforma.
Per questo le iperboli allarmistiche sull’emergenza democratica determinata dalla riforma che oggi approviamo risultano poco credibili e dettate solo da scelte politiche certamente comprensibili ma assolutamente di corto respiro.
Noi difendiamo questa riforma non per calcoli di parte, ma nell’interesse degli italiani, per questo in tempi non sospetti, quando la maggioranza che la sosteneva era maggiore dei due terzi del Parlamento, per primi noi di Area popolare chiedemmo che in ogni caso questa riforma potesse essere sottoposta all’approvazione dei cittadini attraverso referendum. Referendum per il quale tanti parlamentari di partiti diversi hanno aderito al Comitato per il sì costituito dall’onorevole Adornato. Un sì, voglio dirlo schiettamente e chiaramente al presidente del Consiglio e al ministro Boschi, alla riforma, ai suoi contenuti e agli effetti benefici che avrà sull’Italia di domani, non un plebiscito su una persona e sulla sua azione politica.
Perché, detto con tutta la considerazione della persona e delle sue capacità, in gioco qui non c’è il futuro di una brillante avventura politica ma il futuro delle nostre istituzioni e la loro capacità di rispondere alle esigenze del Paese e del corpo elettorale: il futuro cioè della democrazia.
Non si commetta l’errore della personalizzazione, ma si lavori per un fronte ampio di parlamentari e società civile, infatti, l’approvazione di questa riforma non è la fine di un percorso, ma l’inizio indispensabile di un processo riformatore e di una manutenzione costituzionale nella quale dovremo impegnarci con maggiore sollecitudine rispetto a quanto fatto finora. Non abbiamo fatto – per parafrasare Leibniz – la migliore delle riforme possibili, non esiste la legge perfetta (non in quest’aula e non in questo mondo, almeno).
Noi abbiamo fatto una buona riforma, ma restano aperte una serie di questioni. Una per tutti: mancano, ad esempio, quei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo” richiesti dall’ormai mitico ordine del giorno Perassi approvato dall’Assemblea Costituente nel 1946 che sono invece presenti in Gran Bretagna, Germania, Spagna. Non è perché ci abbiamo messo trent’anni che dobbiamo aspettarne altrettanti per “riforme mirate – come dice il costituzionalista Ceccanti – per soluzioni che si rivelino imprecise”. Non a caso i costituenti si preoccuparono di non “rendere difficilissima una revisione” della Carta nel futuro di fronte all’emergere di “bisogni sempre nuovi e sempre diversi”.
Il Capo dello Stato Sergio Mattarella nel suo discorso prima di Natale si augurava che le riforme “giungano a compimento in questa legislatura”, perché il senso di incompiutezza rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare la sfiducia”.
E’ vero però che il voto di oggi determina un passaggio politico che si concluderà con il referendum, e si aprirà una fase nuova nell’azione politica della coalizione di governo. Un anno fa il presidente del Consiglio in quest’Aula fece un elenco delle riforme necessarie per cambiare il paese: la legge elettorale, la riforma costituzionale, la riforma del lavoro, la riforma della pubblica amministrazione, la riforma del fisco, la riforma della scuola, la riforma della giustizia.
Come ognuno può ben vedere, siamo a metà del lavoro, così come siamo agli inizi di una ripresa economica che finalmente dà l’inversione del segno meno davanti al nostro PIL e di cui si vedono i primi effetti sull’occupazione, scesa ai minimi dopo l’inizio della crisi, ma – non nascondiamocelo – ancora troppo alta, come ancora sono diversificate la ripresa economica e l’occupazione nelle diverse aree del nostro Paese.
La riforma che approviamo oggi è il frutto del lavoro di una maggioranza, di forze politicamente autonome e alternative ma complementari in questa fase della vita del nostro Paese, con un unico comune denominatore, la volontà riformatrice. Sulla giustizia, sul fisco (quanto ancora c’è da fare per un’effettiva diminuzione della pressione fiscale) sulla famiglia, sui diritti civili, sulla libertà di impresa come vogliamo procedere? Con maggioranze variabili a seconda dell’argomento, come affiora da più di una dichiarazione di esponenti del Pd? Il Partito democratico pensa di continuare a cambiare il Paese con chi oggi voterà contro questa riforma? Con chi lo accusa di tentazioni egemoniche, con chi parla di emergenza democratica, di legge elettorale liberticida, di Jobs Act come massacro sociale? Con chi raccoglie firme per bocciare le riforme sin qui fatte?
Noi di Area popolare oggi, coerentemente con la responsabilità che ci siamo assunti collaborando prima alla nascita del governo Letta e poi a quella dell’attuale esecutivo, voteremo sì alla riforma costituzionale e ci impegneremo nel referendum che dovrà confermarla, ma non rinunceremo alla nostra identità e a ricordare a tutti che il senso di questa legislatura e di questo esecutivo è continuare a lavorare perseguendo lo scopo per cui è nato: una coraggiosa azione di cambiamento. Mi auguro che la fine di questa legislatura veda la stessa coerenza da parte delle altre forze dell’attuale maggioranza.